IL GOMASIO: il condimento medicina

Angela De Laurentiis • 25 luglio 2018

Il gomasio è un ALIMENTO NATURALE di origine nipponica, costituito da semi di sesamo (goma, in giapponese) tostato e sale (shio). Può essere utilizzato come condimento, per insaporire insalate, carne, pesce e verdure, ma ha anche specifiche funzioni curative, che gli derivano dal sesamo. I semi di questa pianta, infatti, sono particolarmente nutrienti, ricchi di vitamine e sali minerali. Inoltre, essi hanno benefiche proprietà antiossidanti .



I semi di sesamo , e di conseguenza il gomasio, contengono proteine, vitamine D ed E, calcio, fosforo, ferro e zinco. Tutte queste sostanze sono fondamentali per il buon funzionamento e la rigenerazione del sistema nervoso . Il gomasio, inoltre, contiene anche sesamina, sesamolina e sesamolo, tre antiossidanti che contribuiscono a controllare i livelli di colesterolo nel sangue e salvaguardare il fegato. Il gomasio è anche ottimo contro l’ ipertensione , l’ osteoporosi , i dolori da infiammazione del nervo sciatico , l’eccessivo affaticamento e lo stress . Inoltre è un alimento molto digeribile.

Grazie al suo importante apporto calorico, il gomasio è ideale per integrare diete che non prevedono l’utilizzo di carne e dei suoi derivati, come la dieta vegana. È un SOSTITUTO DEL SALE in diete che richiedono particolari restrizioni di cloro e sodio. Ma è anche un integratore nel caso di diete povere di sodio e oli vegetali.

In cucina si può utilizzare il gomasio per condire le verdure crude in insalata o cotte al vapore, ma anche per insaporire in modo delicato le carni arrosto e il pesce al forno. Per quanto riguarda i primi piatti, potete preparare dei buonissimi spaghetti con zucchine, germogli di soya e gomasio, oppure osare un risotto con fagioli Azuki e gomasio, o ancora una crema di zucca e patate con un pizzico di gomasio.

Autore: Angela De Laurentiis 16 luglio 2025
Trovo questo articolo dell' AIRC molto completo e finalmente, credo, comprensibile a tutti. Rimane incompleta la parte della carne bianca e questo potrebbe far pensare che non abbia effetti particolari. Non è vero. La bianca e la rossa NON LAVORATA sono allo stesso livello. Entrambe non piu di 1-2 volte a settimana. Tutto cio che è lavorato invece, sia rossa che bianca, VANNO ELIMINATI o LIMITATI di molto. Riporto sotto l'articolo in versione integrale: In sintesi La carne rappresenta un’importante fonte di proteine ed è importante ricordare che le proteine animali sono costituite dalle stesse molecole di quelle vegetali, gli amminoacidi. La pericolosità delle carni rosse e lavorate per il rischio di cancro dipende sia dalle quantità sia dal modo con cui alcune componenti interagiscono con l’organismo. Per esempio, la lavorazione delle carni per la loro conservazione e le modalità di cottura modificano le molecole presenti o ne generano di nuove che possono aumentare il rischio di sviluppare un tumore. I cibi di origine animale contengono, oltre alle proteine, anche molte altre sostanze, tra cui i grassi saturi e il ferro nel gruppo eme. In dosi eccessive esse possono provocare un aumento di colesterolo, dei livelli di insulina nel sangue e l’infiammazione del tratto intestinale, aumentando il rischio di certe patologie, come il tumore del colon-retto e altri tipi di cancro. Un consumo modesto di carni rosse non aumenta in modo sostanziale il rischio di ammalarsi di cancro in individui a basso rischio. Le persone a elevato rischio individuale (per familiarità o presenza di altre patologie) dovrebbero discutere del loro piano alimentare insieme a un medico, per valutare quanto è opportuno ridurre l’apporto di carne rossa e carni lavorate, considerando che nella carne vi sono alcuni nutrienti (come la vitamina B12, il ferro e lo zinco) che sono comunque preziosi per il benessere dell’organismo. Le patologie associate a un eccessivo consumo di carne rossa Nessuna patologia è causata soltanto dal consumo di carne rossa. Tuttavia, gli epidemiologi concordano sul fatto che gli individui che seguono diete ricche di proteine animali, soprattutto carni rosse e lavorate, hanno un maggior rischio di sviluppare malattie croniche non trasmissibili come diabete, obesità, malattie cardiovascolari, renali e neurodegenerative, oltre a diverse forme di cancro e infezioni. Riguardo ai tumori, il rischio aumenta soprattutto per quelli dell’apparato gastrointestinale, come il tumore del colon-retto e dello stomaco. Vi sono inoltre alcune evidenze rispetto al rischio di sviluppare altre neoplasie, come quelle del seno, dell’ovaio, della prostata e dell’endometrio. Nel 2015 l’International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione ha stabilito che la carne rossa è probabilmente cancerogena (classe 2A della sua classificazione) e che la carne rossa lavorata (insaccati e salumi) è sicuramente cancerogena (classe 1 della classificazione della IARC). La IARC è un’agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze. Tutti i dati che hanno portato a tale classificazione e le riflessioni sul tema sono contenuti e descritti in dettaglio in una monografia dedicata a “Carni rosse e lavorate”, pubblicata dagli esperti della IARC nel 2018 e basata sulla revisione di oltre 800 studi sull’argomento. Negli anni seguenti i risultati di queste ricerche sono stati confermati da tutti i singoli studi epidemiologici condotti a riguardo, tra cui quello pubblicato all’inizio del 2025 sulla rivista Nature Communications. Come si studia l’associazione tra il consumo di un alimento e il rischio oncologico Il nesso tra alimentazione e sviluppo di una malattia si studia soprattutto attraverso le indagini epidemiologiche, in cui si osserva la frequenza di una determinata malattia all’interno di una popolazione e si cerca un’eventuale correlazione con possibili fattori di rischio. Nel caso dello studio degli effetti della dieta sulla salute, l’epidemiologia nutrizionale indaga e individua le relazioni esistenti tra determinati alimenti e l’insorgenza di malattie. Questi studi trovano quindi associazioni tra il maggiore o minore consumo di certi cibi e l’aumento o la diminuzione delle probabilità di sviluppare una determinata malattia. Non possono però consentire di stabilire la causa di un simile effetto: tutt’al più è possibile formulare delle ipotesi, sulla base di conoscenze già acquisite. In ogni caso, valutare l’esposizione a un fattore di rischio è difficile. A variare sono infatti le quantità, le modalità di assunzione, il tempo e le dosi. Inoltre, negli studi epidemiologici questi dati sono spesso raccolti attraverso diari forniti ai partecipanti, per cui portano con sé un inevitabile limite legato al ricordo, alla precisione e alla sincerità che influiscono la qualità delle informazioni. A ciò occorre aggiungere che, per registrare un aumento dei casi di una malattia (tumore, ma non solo) rispetto al dato atteso occorrono grandi numeri e tempi lunghi di osservazione. Individuare oltre ogni ragionevole dubbio la causa sottostante l’insorgere di una malattia finora è stato quindi possibile per poche sostanze, come il fumo di sigaretta e l’amianto, oggi considerati unanimemente i principali fattori di rischio per lo sviluppo della maggior parte delle neoplasie polmonari e del mesotelioma. Come interpretare la classificazione della IARC? C’è molta confusione riguardo al significato della decisione della IARC di includere le carni rosse e le carni rosse lavorate rispettivamente nella classe 2A e nella classe 1 delle sostanze cancerogene. La decisione è stata presa dopo un’attenta revisione degli studi disponibili in merito, ma non significa che i salumi siano sempre e necessariamente più pericolosi della carne rossa fresca. La classificazione di cancerogenicità non è una classificazione del livello di rischio, ma una misura del grado di fiducia che gli esperti hanno nei dati per potersi esprimere sulla cancerogenicità di una sostanza o un prodotto. In pratica ciò ci dice soltanto che gli studi su salumi e insaccati hanno una qualità e un’ampiezza tale da farci dire con minore incertezza che i salumi possono aumentare il rischio di ammalarsi, mentre gli studi sulle carni rosse non lavorate sono statisticamente meno forti e quindi ci permettono solo di dire che probabilmente l’associazione esiste. Per quel che riguarda le carni bianche (pollame e coniglio), gli esperti affermano solo che non esistono studi sufficientemente attendibili e che quindi non possono pronunciarsi né in un senso né nell’altro. Ciò nonostante, la conoscenza dei meccanismi molecolari che rendono la carne rossa potenzialmente cancerogena (per esempio la presenza del ferro eme) permette di dire che le carni bianche sono probabilmente più sicure, dato che ne contengono, in generale, in piccolissima quantità. La classificazione della IARC, inoltre, non ci dice nulla sulla potenza di una sostanza nel provocare tumori. Molti giornali, al momento della diffusione della notizia del rapporto IARC, titolarono che la carne rossa lavorata è “cancerogena come il fumo”. Si tratta di una interpretazione non basata sui risultati delle ricerche. La carne rossa è inserita nella stessa categoria del tabacco, quella delle sostanze sicuramente cancerogene per gli esseri umani, perché per entrambe sono disponibili prove scientifiche sufficienti perché gli esperti possano esprimere un parere affidabile. Ma il fumo è un cancerogeno molto più potente degli insaccati, per cui una fetta di salame di tanto in tanto dovrebbe avere minore influenza sulla salute di un paio di sigarette. Di quanto aumenta il rischio individuale di ammalarsi di cancro del colon se si consuma carne rossa? Con i dati attualmente disponibili non è possibile fornire una risposta precisa a questa domanda. Gli studi epidemiologici valutano l’aumento del rischio sui grandi numeri e non a livello del singolo individuo. Gli esperti hanno stabilito che il 18-21% dei tumori al colon (e il 3% di tutti i tumori) sono probabilmente legati al consumo di carni rosse e insaccati. Per confronto, il fumo di sigaretta è responsabile dell’85-95% dei tumori al polmone. In un documento pubblicato nel 2017 dal World Cancer Research Fund , si stima che un consumo elevato di carni rosse lavorate (50 grammi al giorno) aumenta del 16% circa il rischio di ammalarsi di cancro del colon-retto. Si tratta però del cosiddetto rischio relativo, che va cioè combinato con il rischio assoluto degli individui. Per esempio, le persone che hanno una malattia infiammatoria cronica intestinale (malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa) o una elevata familiarità per cancro del colon-retto hanno già condizioni che accrescono di molto il loro rischio di sviluppare un cancro colorettale. Mangiando insaccati in grande quantità lo accresceranno ulteriormente del 16% circa. Invece, persone che non hanno familiarità per il cancro del colon e hanno abitudini di vita salutari (non fumano, fanno esercizio fisico) partono da un rischio di sviluppare un tumore del colon-retto più basso. Quindi, se consumano spesso salumi, accresceranno il rischio di ammalarsi del 16%, ma il loro rischio di sviluppare il tumore resterà comunque molto basso perché complessivamente rischio assoluto e rischio relativo sono entrambi bassi. Consumo di carni rosse e lavorate, genetica e cancro Il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto sembra risentire anche della genetica. Secondo i risultati di uno studio, pubblicati sulla rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention, la presenza di due varianti dei geni Has2 e Smad7 aumenterebbe il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto in caso di un consumo elevato di carne rossa e processata, del 30-40% circa rispetto al resto della popolazione. In altre parole, avere questa predisposizione genetica aumenterebbe di circa 3 volte la possibilità di sviluppare un tumore colorettale a parità di consumo elevato di questi alimenti, rispetto a chi non presenta tali caratteristiche genetiche. Questi dati evidenziano quanto sia importante l’interazione tra geni e ambiente per quanto riguarda l’eventuale insorgenza del tumore del colon-retto. Che cosa contiene la carne rossa? La carne contiene prevalentemente proteine. Dal punto di vista biochimico tutte le proteine che costituiscono gli organismi viventi sono costruite nello stesso modo, tramite l’assemblaggio di venti amminoacidi uguali in tutte le specie, sia animali sia vegetali. Il colore delle carni rosse (manzo, maiale, agnello e capretto) è dato dalla presenza nei tessuti di due proteine imparentate fra loro: l’emoglobina e la mioglobina. Entrambe contengono una molecola, detta gruppo eme, con al centro un atomo di ferro. Il gruppo eme è la “trappola molecolare” che cattura le molecole di ossigeno e consente di far loro raggiungere i tessuti, che ne hanno bisogno per produrre energia. Per questo ne vengono immagazzinate grandi quantità nei muscoli, che si colorano di rosso. Diversi studi indicano che il gruppo eme stimola nell’intestino la produzione di alcune sostanze cancerogene e provoca infiammazione nelle pareti intestinali. Un’infiammazione prolungata nel tempo, dovuta a una massiccia ingestione di carne rossa, aumenta le probabilità di sviluppare tumori del colon-retto, che è una delle neoplasie più comuni e una delle principali cause di morte per malattie oncologiche nei Paesi industrializzati, dove il consumo di carni rosse è molto diffuso. Non solo: le carni rosse possono essere lavorate mediante essicazione, salatura o affumicatura, e conservate con additivi come nitrati, nitriti e idrocarburi policiclici aromatici. Negli studi epidemiologici in generale si distingue il consumo di carne fresca da quello di salumi e insaccati, proprio per via della diversa composizione. Non bisogna dimenticare infine che la carne contiene anche grassi, in proporzione variabile a seconda del tipo preso in considerazione: si va da un 1% circa delle carni bianche magre fino al 47% circa delle carni di maiale. Quali sono i meccanismi che legano carne rossa e cancro? Nel 2013 sono stati pubblicati i risultati dello studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), promosso dall’Unione europea, dalla IARC e sostenuto anche da AIRC. Condotto con oltre mezzo milione di partecipanti in tutta Europa, lo studio ha confermato con i propri risultati un’associazione fra consumo di carni lavorate e morti premature per malattie cardiovascolari e cancro, soprattutto al colon-retto e al seno. I dati raccolti dallo studio EPIC hanno però anche dimostrato, di contro, che un consumo di piccole quantità di carne rossa ha effetti benefici per la salute, fornendo importanti vitamine e nutrienti specifici. L’effetto mutageno della carne rossa fresca è attribuito soprattutto alla presenza del ferro nel gruppo eme (un potente ossidante). A questo rischio concorre probabilmente anche la capacità della carne di produrre sostanze che modificano la composizione delle colonie di batteri che risiedono nell’intestino. Diversi studi hanno poi mostrato che i processi di lavorazione e conservazione aumentano il rischio di sviluppare disturbi cardiovascolari e diabete. Quanto al cancro, il rischio esiste anche per i forti consumatori di carne fresca, anche se i meccanismi molecolari non sono ancora del tutto chiari. È probabile che la differente quantità di sale e conservanti contribuisca al diverso rischio tra carne rossa lavorata e non lavorata. Anche il già citato studio EPIC ha fornito osservazioni in questa direzione: il rischio di morire prematuramente di cancro o malattie cardiovascolari aumenta all’aumentare della quantità di carne lavorata consumata. Secondo EPIC le morti premature potrebbero essere ridotte del 3% circa ogni anno se le persone consumassero non più di 20 grammi di carne lavorata al giorno. È bene chiarire che gli studi epidemiologici non fanno distinzioni sulla base della qualità del prodotto (carne di alta qualità o bassa, salumi artigianali o industriali). Per quel che riguarda le carni rosse non lavorate, però, una tale distinzione non avrebbe nemmeno senso, perché i composti che risultano mutageni (il ferro nel gruppo eme e alcune molecole che si formano nell’intestino durante la demolizione degli alimenti) sono proprietà intrinseche, che non dipendono dalla qualità della carne. Su altri meccanismi studiati dalla IARC, come la modificazione del microbiota intestinale (i batteri che ci possono proteggere dalle sostanze mutagene) non si può, invece, al momento, fare una distinzione tra un tipo di proteina animale e l’altro, perché non sono disponibili informazioni sufficienti. Per essere precisi, attualmente non disponiamo di dati diretti di un’eventuale alterazione dell’equilibrio del microbiota intestinale causata dal consumo di carne rossa o lavorata. Esistono invece dati che indicano che un’alimentazione più ricca di fibre, frutta e verdura e più povera di alimenti processati e di origine animale è associata a un microbiota più sano e protettivo contro diverse malattie, tra cui il cancro. Quanto conta la composizione del piatto? La cottura della carne alla griglia o in padella ha molti vantaggi: le alte temperature uccidono i microrganismi e causano cambiamenti nella struttura chimica delle proteine aumentandone la digeribilità e il potenziale nutritivo. Tuttavia, durante la cottura si formano anche sostanze potenzialmente tossiche e cancerogene (come le ammine eterocicliche e gli idrocarburi policiclici aromatici), in particolare all’interno della classica “crosta bruciacchiata” della carne. Nel 2011 i risultati pubblicati sul British Journal of Cancer di uno studio condotto con 17.000 partecipanti hanno mostrato che chi consumava la carne più grigliata aveva una frequenza maggiore di cancro al colon del 56% circa e chi la consumava più cotta, del 59%. È sempre meglio evitare una cottura eccessiva a temperature troppo elevate e con la carne a contatto diretto con la fiamma. Si consiglia di rimuovere le parti nere e inoltre prediligere altre forme di cottura più sane, come la cottura al forno. Per chi pensa di passare a una dieta vegetariana, occorre tenere conto degli studi che negli ultimi anni hanno messo in luce i benefici generali sulla salute di questo tipo di alimentazione, a patto che tali diete siano rigorosamente controllate, in modo da garantire un apporto nutrizionale completo. Tuttavia, al momento non esistono dati che indichino una relazione convincente tra rischio di malattie in assoluto (quindi non solo cancro) e un modesto consumo di proteine animali. Quando si parla di modificazioni drastiche dello stile di vita è bene prendere in considerazioni gli effetti complessivi di tali scelte e non solo per il rischio di cancro. Quali sono le dosi massime consigliate di carne rossa e carne rossa processata per un consumo salutare? Nella storia dell’umanità non si è mai consumata così tanta carne e in modo così diffuso come oggi, per cui ci sono margini per una ragionevole riduzione, senza arrivare necessariamente a scelte drastiche. Il World Cancer Research Fund raccomanda non più di tre porzioni a settimana di carne rossa, che equivalgono a circa 350-500 grammi, e di evitare o limitare al massimo la carne rossa processata. Inoltre suggerisce di consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura, per un totale di almeno 400 grammi al giorno. L’Harvard School of Medicine restringe il limite di consumo di carni rosse a porzioni non superiori a 110-115 grammi, al massimo due volte a settimana. La IARC raccomanda di consumare una quantità di carne rossa non superiore a 500 grammi alla settimana per limitare il rischio di cancro. Le raccomandazioni sono generali e non sono necessariamente da tradursi in indicazioni individuali, dato che il proprio rischio di ammalarsi dipende anche da altri fattori, come appunto la familiarità e altri aspetti comportamentali e ambientali. Può darsi che per qualcuno sia opportuno ridurre o eliminare del tutto la carne rossa, anche se per la maggior parte delle persone basta consumarla con moderazione. Per questo è meglio valutare eventuali restrizioni alimentari con il medico di fiducia. In conclusione Una gran mole di studi condotti nel tempo ha dimostrato che un consumo abbondante di carne rossa, soprattutto se lavorata o cotta ad alte temperature, aumenta il rischio di sviluppare molte malattie, prima tra tutte il cancro al colon-retto. È bene quindi limitare il consumo di proteine animali ottenute da questa fonte e sostituire possibilmente la carne rossa con fonti di proteine magre, come pollo o pesce, o meglio ancora con proteine vegetali come i legumi. Infine, vanno fortemente limitate, se non evitate, le carni lavorate come i salumi e quelle molto cotte e abbrustolite. In generale tre quarti di ciò che mangiamo complessivamente dovrebbe essere costituito da cibi vegetali. Questo il link all'articolo https://www.airc.it/cancro/informazioni-tumori/corretta-informazione/le-carni-rosse-fanno-male-alla-salute?fbclid=IwY2xjawLkJ6lleHRuA2FlbQIxMQABHqWGRtlHGNmKGCMzn6PQIrYOoi6DgHyOj6-LANdtr-1CaZyXLOLs3JEdx_XL_aem_6yupffhF_WJt8qGAcZI2Cw
Autore: LILT BOLZANO 12 giugno 2025
Le mandorle, come altra frutta secca oleosa a guscio, sono un alleato importante nella prevenzione e nella nostra cucina anticancro, perché al contrario di quello che alcuni pensano, possono essere consumate anche d’estate. Con un po’ di fantasia possiamo usarle in diverse preparazioni nei nostri piatti estivi; aggiungendo così alla nostra alimentazione dei grassi buoni (acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi), delle fibre, dei minerali, delle vitamine, e degli altri composti benefici come l’acido ellagico e le urolitine (derivati dagli elligitannini), gli acidi fenolici, il gammatocoferolo e la melatonina; tutti questi sono composti importantissimi nella nostra prevenzione contro il cancro. Le evidenze scientifiche attuali hanno dimostrato che le mandorle ed in genere la frutta secca a guscio, sono alimenti che contribuiscono alla corretta espressione dei geni che regolano sia la crescita cellulare sia i tipi di batteri intestinali che influenzano la salute del colon. Iniziamo a parlare di due sostanze che derivano dagli ellagitannini contenuti nelle mandorle: l’acido ellagico e le urolitine. Queste aumentano gli enzimi antiossidanti, diminuendo così i danni apportati dai radicali liberi al nostro DNA che possono portare allo sviluppo del cancro. Infatti, in alcuni studi eseguiti sulle cellule, le urolitine hanno inibito sia l’enzima aromatasi che produce estrogeni, sia la crescita delle cellule del cancro al seno sensibili agli estrogeni. Inoltre si è visto che influenzano anche l’espressione genica, diminuiscono la crescita e stimolano l’autodistruzione delle cellule tumorali in bocca, esofago, mammella, cervice, colon e prostata. Va rilevato inoltre che da studi sugli acidi fenolici, si è osservato che essi possono migliorare il metabolismo del glucosio, diminuire la resistenza all’insulina, regolare il microbiota intestinale (l’insieme dei microbi che vivono nel nostro colon) e creare nel corpo un ambiente meno adatto per sviluppare il cancro. Prendiamo ora in considerazione la vitamina E, o meglio il gamma-tocoferolo presente nelle mandorle; questo è uno degli otto elementi che compongono la vitamina E. L’evidenza scientifica suggerisce che il gamma-tocoferolo può fornire una protezione antinfiammatoria e una riduzione delle cellule tumorali ancora più importante rispetto all’alfa-tocoferolo (un’altro composto della vitamina E). Per ultimo parliamo della melatonina, quell’ormone che le persone producono fisiologicamente in risposta all’oscurità e che si trova anche in alcuni alimenti, tra cui le mandorle. La melatonina è nota per aiutare a regolare i ritmi circadiani del corpo, eppure nell’ultimo decennio, è stato chiarito che la sua azione antiossidante riduce anche i radicali liberi, i quali potrebbero danneggiare il nostro DNA. Alla melatonina è stata riconosciuta in particolare la capacità di ridurre la crescita del tumore mammario positivo e negativo per i recettori degli estrogeni e del tumore alla prostata. In conclusione si può affermare che vale proprio la pena di inserire le mandorle nella nostra alimentazione. -LILT BOLZANO -
24 aprile 2025
Pubblico questo articolo molto interessante preso da una rivista specializzata, perchè dopo anni che svolgo questo lavoro, trovo ancora abbastanza assurdo sentirmi dire da alcuni pazienti la frase: "sono stata da una nutrizionista prima ma aveva un approccio diverso"...oppure "si legge di tutto, ognuno poi ha il suo approccio differente". No non è approccio personale, c'è la scienza e c'è l'idea personale non dimostrata. Dopo tanti anni da RICERCATRICE prima che da nutrizionista, mi sento di dire che la letteratura scientifica va letta praticamente giornalmente affinchè si offra al paziente SEMPRE l'approccio migliore. Se poi si danno ancora consigli vecchi perchè si è rimasti alla letteratura di 20anni prima (e mi capita spesso), o ancora peggio la letteratura non viene proprio letta, c'è un grosso problema e si creano i divari di pensiero. Di seguito l'articolo. MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE INTESTINALI (MICI) E NUTRIZIONE: COSA NON SANNO I PAZIENTI E PERCHÉ È FONDAMENTALE UN APPROCCIO BASATO SULL'EVIDENZA Una recente review pubblicata su Nutrients ha preso in esame le lacune nella conoscenza nutrizionale dei pazienti con Malattie infiammatorie croniche intestinali (Mici), evidenziando come spesso le decisioni dietetiche si basino su credenze personali anziché su evidenze scientifiche, portando così a inutili restrizioni alimentari e al rischio di malnutrizione. A parlarcene, Eleonora Ribaudi, dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche, Uoc Medicina Interna e Gastroenterologia, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma e coordinatrice del lavoro. D.SSA RIBAUDI, QUAL È RUOLO DELL'ALIMENTAZIONE NELLE MICI? Svolge un ruolo cruciale, influenzando sia l'infiammazione che i sintomi clinici. La dieta occidentale, ricca di grassi saturi, alimenti ultra-processati, zuccheri raffinati e additivi, è stata associata a un aumento della permeabilità intestinale e a un'alterazione del microbiota, contribuendo alla progressione della malattia. Al contrario, modelli alimentari come la dieta mediterranea, caratterizzati da un elevato consumo di fibre solubili, acidi grassi mono e polinsaturi, e alimenti ricchi di polifenoli, hanno dimostrato effetti protettivi grazie alle loro proprietà antinfiammatorie e di modulazione del microbiota intestinale. L’alimentazione è quindi non solo uno strumento di supporto alla terapia farmacologica, ma può rappresentare un approccio complementare o alternativo, migliorando la qualità della vita e riducendo il rischio di recidive. QUALI SONO LE PRINCIPALI LACUNE DI CONOSCENZA NUTRIZIONALE RISCONTRATE NEI PAZIENTI CON MICI? Diversi studi hanno evidenziato come i pazienti spesso manchino di informazioni accurate sulle strategie alimentari più appropriate, con una tendenza a basare le proprie scelte su esperienze personali piuttosto che su raccomandazioni basate sull’evidenza. Tra le principali lacune si riscontrano la scarsa comprensione del ruolo delle fibre, erroneamente percepite come dannose, e la tendenza ad adottare diete restrittive senza una supervisione professionale, aumentando il rischio di malnutrizione. Inoltre, il concetto di food literacy, ovvero la capacità di comprendere e applicare informazioni nutrizionali, è spesso carente, portando i pazienti a escludere alimenti importanti senza una reale necessità clinica. QUALI SONO I CIBI PIÙ COMUNEMENTE EVITATI DAI PAZIENTI CON MICI E PERCHÉ? I pazienti tendono ad evitare numerosi alimenti percepiti come scatenanti di sintomi, tra cui latticini, cibi piccanti, fritti, ricchi di grassi, alimenti con glutine e verdure ricche di fibra insolubile. Questo comportamento è spesso guidato da esperienze soggettive piuttosto che da raccomandazioni scientifiche, portando a restrizioni alimentari e a un aumento del rischio di carenze nutrizionali. Il consumo di latticini, ad esempio, viene evitato per timore di intolleranza al lattosio, sebbene solo una parte dei pazienti ne sia realmente intollerante. Anche il glutine è spesso escluso senza una diagnosi di celiachia o sensibilità al glutine non celiaca, riflettendo una diffusa disinformazione sull'alimentazione nelle Mici. IN CHE MODO LE CARENZE DI MICRONUTRIENTI SONO PREVALENTI E QUALI SONO LE PIÙ COMUNI? Si tratta di carenze molto frequenti a causa di un ridotto apporto alimentare, malassorbimento, aumentata perdita intestinale e interazioni con i farmaci. Tra le carenze più frequenti vi sono quelle di ferro, vitamina B12, vitamina D, zinco e folati. L’anemia da carenza di ferro è la più diffusa, dovuta alla perdita di sangue intestinale e alla ridotta capacità di assorbimento. La carenza di vitamina D è associata a una maggiore attività infiammatoria, mentre la vitamina B12 risulta spesso ridotta nei pazienti con resezioni intestinali. L’identificazione e il trattamento precoce di queste carenze sono fondamentali per prevenire complicanze a lungo termine. QUALI TIPI DI INTERVENTI NUTRIZIONALI COGNITIVO/COMPORTAMENTALI SI SONO DIMOSTRATI EFFICACI NEL MIGLIORARE LA GESTIONE DELLE MICI? Sicuramente quelli che combinano educazione alimentare personalizzata, counseling nutrizionale e supporto psicologico. Programmi di educazione nutrizionale individuali o di gruppo hanno dimostrato di migliorare la consapevolezza dei pazienti sulle scelte alimentari, riducendo le restrizioni inutili e migliorando la qualità della vita. Strategie che incoraggiano il mindful eating e la gestione dello stress, spesso associato all’aggravamento dei sintomi, hanno evidenziato benefici nel controllo della malattia. Tuttavia, questi interventi non sono ancora implementati in modo uniforme nella pratica clinica. QUALI APPROCCI DIETETICI SPECIFICI SONO STATI STUDIATI? Sono diversi, con risultati variabili a seconda del tipo di malattia e della fase, attiva o di remissione. La dieta mediterranea ha mostrato effetti benefici nel ridurre l’infiammazione e migliorare la qualità della vita. La nutrizione enterale esclusiva è efficace nell’indurre la remissione nel morbo di Crohn, mentre la dieta a basso contenuto di FODMAP può ridurre i sintomi gastrointestinali nei pazienti con Mici e sindrome dell’intestino irritabile sovrapposta. Altri regimi, come la Crohn’s Disease Exclusion Diet e la dieta povera di carne rossa e processata, hanno mostrato effetti positivi sulla gestione dei sintomi. Tuttavia, la personalizzazione dell'approccio è essenziale per evitare carenze nutrizionali. QUAL È IL RUOLO DEI PROFESSIONISTI SANITARI NELLA GESTIONE NUTRIZIONALE DEI PAZIENTI? È fondamentale e richiede un approccio multidisciplinare. Gastroenterologi, dietisti e infermieri specializzati dovrebbero collaborare per fornire informazioni basate sull’evidenza, monitorare lo stato nutrizionale e prevenire carenze. I dietisti specializzati, in particolare, sono essenziali per guidare i pazienti nella scelta di diete adeguate senza restrizioni inutili, promuovendo il mantenimento di uno stato nutrizionale ottimale. L'integrazione di educazione alimentare nei percorsi di cura può ridurre il ricorso a diete autodeterminate e migliorare la qualità della vita. Tuttavia, l’accesso ai servizi nutrizionali specializzati rimane spesso limitato, evidenziando la necessità di implementare strategie per una migliore gestione nutrizionale nelle Mici. Nicola Miglino
Autore: AIRC 24 aprile 2025
https://www.airc.it/traguardi-dei-ricercatori/una-famiglia-di-batteri-intestinali-protegge-dal-tumore-del-colon-retto Una famiglia di batteri fisiologicamente presenti nell’intestino svolge un’importante azione protettiva contro il tumore del colon-retto. È la scoperta compiuta da un gruppo di ricercatori coordinati da Maria Rescigno, principal investigator del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di Humanitas University. I risultati dello studio, condotto grazie al sostegno di Fondazione AIRC, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Microbiology. Il cancro al colon è una malattia influenzata da fattori genetici, ambientali e da abitudini e comportamenti non salutari. Da qualche tempo si sta cominciando a capire che anche il microbiota, cioè l’insieme delle popolazioni di batteri che normalmente vivono nell’intestino, incide in diversi modi sulla malattia, in alcuni casi favorendone l’insorgenza e la progressione e in altri contrastandola. Tuttavia, fino ad adesso non erano mai stati identificati specifici batteri endogeni capaci di proteggere dal processo di trasformazione tumorale. Ci è riuscito ora il gruppo di ricerca coordinato da Maria Rescigno che, in esperimenti condotti sia con topi di laboratorio sia con campioni ottenuti da esseri umani, ha scoperto che il microbiota di pazienti in uno stadio precoce di sviluppo del tumore intestinale, il cosiddetto adenoma, è caratterizzato dall’assenza di una famiglia di batteri chiamati Erysipelotrichaceae. "Crediamo che la trasformazione tumorale delle cellule dell’epitelio intestinale causi un cambiamento delle caratteristiche del muco intestinale" spiega Rescigno, che guida uno dei programmi speciali 5 per 1000 sostenuti da Fondazione AIRC. "Queste modifiche rendono l’ambiente non più idoneo alla sopravvivenza di questo ceppo di batteri." Ciò fa sì che il tumore abbia maggiore facilità di sviluppo. "Questi batteri, fino a oggi sconosciuti, svolgono infatti un’azione di contrasto al tumore" dice ancora Rescigno. "Attraverso il rilascio di alcune sostanze, in particolare l’acido butirrico, sono capaci di inibire la proliferazione delle cellule tumorali." La scoperta potrebbe ora avere importanti ricadute dal punto di vista diagnostico e terapeutico o preventivo. "Il fatto che il microbiota rilevato nelle feci non presenti questa famiglia di batteri" continua Rescigno "è estremamente importante ai fini della diagnosi precoce della malattia nei pazienti con adenoma avanzato. Inoltre, proprio per questi pazienti si potrebbe pensare di ridurre il rischio di sviluppare un tumore maligno restituendo il batterio sotto forma di probiotico."
29 novembre 2024
I fibromi uterini, noti anche come miomi o leiomiomi, sono i tumori benigni più comuni dell'apparato riproduttivo femminile. Colpiscono fino all'80% delle donne in età fertile e possono causare una serie di sintomi, tra cui sanguinamento mestruale abbondante, dolore pelvico e infertilità. Sebbene la causa esatta non sia ancora del tutto compresa, diversi studi clinici ed epidemiologici suggeriscono che la dieta possa svolgere un ruolo significativo nel loro sviluppo e trattamento. Un elevato apporto di frutta e verdura, soprattutto di agrumi, mele, cavoli, broccoli e pomodori, è stato associato a un ridotto rischio di fibromi uterini. Si ipotizza che i fitonutrienti presenti in questi alimenti, come carotenoidi, polifenoli e flavonoidi, possano esercitare effetti antiproliferativi, antinfiammatori e antifibrotici. Uno studio prospettico su donne afroamericane ha evidenziato una riduzione del rischio di fibromi con il consumo di quattro porzioni di frutta e verdura al giorno rispetto a una sola porzione. D’altro canto, un elevato apporto di grassi, in particolare di acidi grassi trans, potrebbe aumentare il rischio di fibromi uterini. Al contrario, gli acidi grassi omega-3, presenti nel pesce, potrebbero avere un effetto protettivo, sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per confermare questa associazione. I dati sul ruolo dei latticini nello sviluppo dei fibromi uterini sono contrastanti. Alcuni studi hanno osservato un'associazione inversa tra il consumo di latticini, in particolare yogurt, e il rischio di fibromi, mentre altri no. Si ipotizza che i componenti antitumorali presenti nei latticini, come calcio, vitamina D, acido butirrico e proteine del latte, possano avere un effetto protettivo. Stessi dati contrastanti anche rispetto alla carne rossa. Numerose ricerche osservazionali hanno evidenziato una correlazione tra i livelli sierici di vitamina D e la presenza e le dimensioni dei fibromi uterini: le donne con livelli di vitamina D più bassi tendono ad avere un rischio maggiore di sviluppare fibromi e fibromi di dimensioni maggiori. Uno studio clinico italiano ha dimostrato che la correzione dell'ipovitaminosi D attraverso l'integrazione in donne con fibromi ha ridotto la necessità di trattamento chirurgico o medico. Questo e altri studi supportano l'ipotesi che la vitamina D possa svolgere un ruolo significativo nella prevenzione e nel trattamento. I meccanismi proposti includono l'azione antiestrogenica della vitamina D, la sua capacità di inibire la proliferazione cellulare dei fibromi e il suo effetto sulla regolazione del sistema di riparazione del Dna. Alcune ricerche indicano un'associazione inversa tra l'assunzione di vitamina A, in particolare da fonti animali, e il rischio di fibromi uterini; altre, invece, suggeriscono un'associazione positiva tra vitamina A e rischio, attribuendola alla possibile attivazione dei recettori Ppar da parte di alti livelli di vitamina A. Gli studi clinici si sono concentrati maggiormente sui retinoidi, derivati sintetici della vitamina A, dimostrando la loro efficacia nel ridurre la proliferazione cellulare, la formazione della matrice extracellulare e nell'indurre l'apoptosi nelle cellule dei fibromi. Gli studi attuali non indicano un'associazione significativa tra l'assunzione di vitamina C e l'incidenza. I dati sul ruolo della vitamina E sono limitati e non conclusivi. Alcuni studi suggeriscono una possibile associazione positiva, dovuta all’attività di modulazione da parte della vitamina E sui recettori degli estrogeni, implicati nella patogenesi dei fibromi. Silvia Ambrogio
Autore: Fatto Quotidiano 11 novembre 2024
MI SENTO DI CONDIVIDERE UN ARTICOLO CHE DOVREBBE FAR RIFLETTERE MOLTE PERSONE. Il caso è per fortuna fuori dall'ordinario, ma in molte famiglie, le ciambelle sono numerose merendine o brioches e l'hamburgher in eccessi di carne, farina 00 raffinata e grassi. Ovvero discostano molto poco da questo caso. IL LINK: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/11/03/mangia-solo-hamburger-con-salsa-ranch-patatine-ciambelle-glassate-e-succhi-di-frutta-ragazzino-diventa-cieco-il-caso-studio-denuncia-gli-effetti-del-junk-food/7753591/ IL TESTO COMPLETO: Hamburger con salsa ranch (cioè con maionese e panna), patatine fritte, ciambelle glassate e succhi di frutta in brick: una dieta limitatissima, quella del ragazzino del Massachusetts, improntata soprattutto su junk food. Alla base di questa selettività c’è l’ARFID (disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo). “L’alimentazione selettiva è comune in pazienti con autismo e ha comportato [nel caso del bambino] carenze nutrizionali associate a disturbi riguardanti il nervo ottico e la retina”, scrivono gli autori del caso di studio pubblicato sul NEJM. Gli autistici hanno infatti dei disturbi sensoriali che si riflettono anche su certi cibi, il cui odore, sapore o consistenza non sono tollerati. Proprio per la consistenza il piccolo americano preferiva quei pochi alimenti, trascurando al massimo i vegetali – tranne i succhi in brick, che per gli esperti non sostituiscono del tutto il frutto fresco. Rifiutava inoltre cibi nuovi e vitamine. E così, una notte si svegliò urlando che non ci vedeva più e fu portato al Boston Children’s Hospital. Cecità permanente Qui i genitori raccontarono che solo sei settimane prima il bimbo aveva cominciato ad avere la visione offuscata mattina e sera, senza che l’optometrista rilevasse nulla. Si appoggiava sempre di più a loro camminando, sbatteva contro porte e muri e aveva gonfiore e croste intorno agli occhi. Poi, d’improvviso, la visione limitata solo a sagome e colori, senza distinguere movimenti e dettagli degli oggetti. I medici diagnosticarono un’atrofia del nervo ottico: lentamente, le cellule nervose avevano cominciato a morire senza segni evidenti. Escludendo altre cause – traumi, infezioni, esposizioni a tossine o a radiazioni – si focalizzarono su una grave carenza di nutrienti causata dalla dieta ristretta: “C’è in particolare una forte evidenza a sostegno della diagnosi delle deficienze di vitamina A, rame e zinco”, si legge nello studio. Oltre a ciò, osservarono deficit di vitamina D, C e K. La somministrazione di vitamine e minerali ristabilì i livelli corretti ma non poté rimediare al danno ottico. I nutrienti mancanti La carenza di vitamina A è tra le principali cause di cecità nei bambini: secondo l’OMS, a livello globale sono 500.000 i piccoli che ogni anno perdono la vista perché non assumono abbastanza vitamina A. Questa è infatti fondamentale per i fotorecettori della retina e per la sensibilità alla luce, e aiuta la visione in condizioni di scarsa luminosità. La vitamina D previene la secchezza oculare, mentre la C protegge dai raggi UV e la K migliora il microcircolo. Rame e zinco sono protettivi della retina. Così il piccolo, certo giustificabile perché autistico, affetto da sindrome da deficit di attenzione (ADHD) e con ritardi cognitivi, linguistici e motori, si privava di preziosi nutrienti. “Il suo è un caso limite, ma probabilmente c’è anche un altro problema oltre a quello sensoriale, forse neurologico non diagnosticato”, osserva il dott. Andrea Coco di Pontedera (PI), esperto di nutrizione clinica, che tra l’altro si occupa della dieta di adolescenti autistici. Malassorbimento dei cibi “L’alimentazione selettiva è un comportamento specifico di questi ragazzini, che hanno un vero e proprio craving per alcuni cibi ricchi di zuccheri semplici. Gli alimenti diventano una boa di salvezza cui aggrapparsi, un rituale e un modo di affermare se stessi”, osserva il dott. Coco. Purtroppo questi cibi ricchi di zuccheri semplici appartengono spesso alla categoria dei junk food, contro cui da anni mette in guardia la scienza. A febbraio, per esempio, uno studio uscito sul BMJ ha individuato legami tra junk food e 32 problemi di salute, tra cui tumori, cardiopatie, malattie polmonari, diabete 2, obesità, ansia, morte prematura. Altri studi hanno denunciato deficit di attenzione in bambini e adolescenti e problemi di salute mentale negli adulti. Certo, non ci vuole un giorno per avere problemi seri, ma purtroppo appare in crescita la diffusione del junk food, tra l’altro a buon mercato e capace di allontanare da alimenti freschi ricchi di nutrienti. “[I cibi spazzatura] possono rappresentare fino al 58% dell’apporto energetico totale quotidiano in alcuni paesi a reddito alto, e negli ultimi decenni stanno rapidamente aumentando in molte nazioni con redditi bassi e medi“, scriveva a febbraio la rivista Scimex, presentando lo studio del BMJ. Non senza conseguenze. “Il junk food promuove un’infiammazione generalizzata di basso grado che coinvolge anche il funzionamento della barriera epiteliale, riducendo così l’assorbimento dei nutrienti”, spiega Coco. “Ne derivano difficoltà nell’assorbimento dei nutrienti, di cui tra l’altro il junk food è poverissimo”. Se questa situazione si inserisce in un quadro già complesso come quello dei ragazzi autistici – spesso affetti da problemi di funzionamento intestinale, sottolinea il medico – la malnutrizione è praticamente garantita. “Occorre allora effettuare una riprogrammazione, aiutandosi con i probiotici per modificare il segnale e togliere il craving biochimico, per poi agire sulla dipendenza mentale e la ritualità, in team con gli educatori”, conclude il medico.
7 novembre 2024
Uno studio dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano evidenzia il legame tra batteri intestinali e risposta all’immunoterapia nel melanoma avanzato, aprendo a nuove strategie terapeutiche e vaccini personalizzati. La ricerca ha coinvolto 23 pazienti in cura all’IEO e al Pascale di Napoli, affetti da melanoma inoperabile e candidati a ricevere la terapia che, bloccando la proteina linfocitaria PD-1, riattiva la risposta immunitaria antitumorale. Da ciascun partecipante sono stati raccolti dati clinici e diversi campioni biologici, sia prima dell’inizio della terapia che mensilmente durante il periodo del trattamento (fino a 13 mesi), consentendo così di associare variazioni del microbiota intestinale con altri marcatori infiammatori ematici. Da un’analisi approfondita dei geni batterici emerge che il microbiota intestinale dei pazienti responsivi all’immunoterapia è arricchito di alcuni geni che portano alla sintesi di peptidi (frammenti di proteine), i quali mimano esattamente la struttura di alcuni dei principali antigeni tumorali espressi dalle cellule di melanoma. Poiché la somiglianza consente a linfociti diretti contro i peptidi batterici di riconoscere anche i loro analoghi tumorali, l’immunità antitumorale ne esce rafforzata. Questa scoperta consentirà in breve tempo di condurre uno screening dei pazienti candidati a immunoterapia grazie ad un test ematico per ricercare linfociti che riconoscono i peptidi batterici analoghi a quelli del melanoma. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Cell Host and Microbe. - FNOB -
Autore: Angela De Laurentiis 5 novembre 2024
La nutrizione nel paziente oncologico in generale e - al polmone in particolare, svolge un ruolo determinante a seconda della necessità della persona. Le macro aree in cui si può intervenire ed essere di aiuto sono: 1- Sostenere il paziente senza nutrire/favorire la crescita del tumore 2- Risolvere stati di astenia, sarcopenia (perdita della massa e della forza muscolare) e cachessia neoplastica (deperimento generale del paziente oncologico). 3- Arricchire la dieta con determinate vitamine massimizzando l'efficacia delle terapie senza entrare in conflitto con esse. 4- Migliorare l’asse intestino-polmone (Microbiota) migliorando effetti collaterali delle terapie e potenziando la risposta immunitaria. Approfondiamo ognuno dei punti elencati per capire come metterli in pratica e tradurli nelle scelte alimentari quotidiane. Ovviamente si tratta di consigli generali che devono essere adattati ad ogni singolo paziente a seconda della concomitanza di altre patologie con l’aiuto di un professionista. 1- Sostenere il paziente senza nutrire/favorire la crescita del tumore. A metà del secolo scorso il premio Nobel Otto Warburg ha scoperto che, durante la loro proliferazione, le cellule tumorali hanno un cambiamento metabolico importante, aumentano il consumo di GLUCOSIO (chiamato anche carboidrato semplice o zucchero) almeno di dieci volte rispetto alle cellule normali. Tale fenomeno le rende capaci di proliferare molto più velocemente delle cellule normali e le rende anche molto più aggressive. Il prodotto di scarto di questo metabolismo è il LATTATO (o Acido Lattico) che viene espulso all’esterno delle cellule, rendendo l’ambiente extracellulare notevolmente acido. Anche questo è un punto cruciale, perché un ambiente acido favorisce l’angiogenesi (formazione di nuovi vasi sanguigni) e di conseguenza la metastatizzazione del tumore. L’intero processo appena descritto è ormai considerato segno univoco e distintivo della trasformazione tumorale delle cellule. Questo consumo di glucosio infatti, viene ormai sfruttato per numerose terapie ed esami strumentali (quali la PET). Bisogna quindi cercare di ridurre la quantità di zucchero (carboidrato semplice) nel sangue per limitare la fonte di sostentamento delle cellule patologiche, e ridurre la quantità di Lattato nel sangue (che se presente in grandi quantità è responsabile di effetti collaterali quali nausea, inappetenza, broncocostrizione, malnutrizione). Non è necessario eliminare il carboidrato dalle tavole, ma basterà ridurne l’indice glicemico, ovvero la sua concentrazione nel sangue. Infatti quando il glucosio è presente in quantità ‘normali’ (inferiore a 100mg/dl a digiuno e 150-170mg/dl dopo i pasti), le cellule sane competono con quelle neoplastiche per assimilarlo e trarne energia. Il risultato è che il quantitativo che arriva a queste ultime non è sufficiente per la loro sopravvivenza, saranno costrette a rallentare il metabolismo risultando anche più vulnerabili. Quando invece la quantità di zucchero in circolazione aumenta (picco glicemico) le cellule normali continuano a consumarne lo stesso quantitativo, in compenso ne avanza molto di più per le cellule neoplastiche che quindi ne hanno a sufficienza per il loro sostentamento e la duplicazione. Tutto questo si trasforma nei seguenti suggerimenti: - Evitare gli alimenti ad alto indice glicemico (ad esempio Farina 0 o 00, zucchero, eccesso di frutta), preferendo come fonti di carboidrati, alimenti quali farine integrali, cereali poco lavorati e legumi. Va limitato anche il riso normale favorendo quello integrale o il basmati (sia normale che integrale dato il suo indice glicemico più basso). - È bene accompagnare il carboidrato con molte verdure che ne abbassano ulteriormente l’indice glicemico. Sarebbe preferibile assumerle all’inizio del pasto, cosi che quando il carboidrato raggiunge lo stomaco trova già le fibre che ne rallentano l’assorbimento (abbassa la concentrazione). Tra le verdure devono essere escluse le patate (si possono utilizzare le patate dolci o Batate) e la zucca che sono essi stessi ricchi di amido (catene di glucosio). - Non inserire la frutta alla fine del pasto. - Non bere succhi di frutta, spremute o bevande ricche di zuccheri. Oltre all’indice glicemico, deve essere mantenuto basso anche il CARICO GLICEMICO. Questo è direttamente correlato alla quantità di insulina che viene rilasciata nel sangue a seguito dell’ingestione di taluni carboidrati. Quest’ultima infatti favorisce la produzione di IGF, un ormone che nel tumore al polmone correla direttamente con un’aumentata crescita di cellule cancerose e aumento della loro migrazione. I suggerimenti nutrizionali elencati prima serviranno anche ad abbassare il carico glicemico. 2- Risolvere stati di astenia, sarcopenia (perdita della massa e della forza muscolare) e cachessia neoplastica (deperimento generale del paziente oncologico). La perdita di peso (superiore al 15% del peso iniziale), che avviene soprattutto a carico della massa muscolare, con comparsa di astenia, stanchezza, alterazione delle funzioni fisiche o riduzione della tolleranza ai trattamenti (Cachessia neoplastica) è un problema molto importante nel paziente oncologico. Tra il 15 e il 40% dei pazienti presenta questi problemi già al momento della diagnosi, percentuale che peggiora durante le terapie per arrivare a colpire circa il 40-60% delle persone in cura. Nel tumore al polmone il coinvolgimento è di 1 persona su 3 alla diagnosi e di 1 su due durante le terapie. La cachessia ha ripercussioni importanti sui trattamenti oncologici e sui risultati delle cure; è stato dimostrato che circa il 20% dei pazienti deve sospendere le terapie a causa della cachessia, con prognosi funesta. Nonostante questi numeri, purtroppo il problema viene ancora sottovalutato; spesso non si interviene in modo tempestivo quando il rischio di malnutrizione sarebbe più semplice da contrastare. Questa perdita di peso è purtroppo dovuta a numerosi fattori, e il tipo di intervento deve essere mirato e personalizzato. I motivi principali sono nausea, stanchezza, dissenteria o stipsi, senso di pesantezza e incapacità di digerire correttamente (dispepsia), malassorbimento, disfagia. Per aiutare a superare questi problemi correlati alla perdita di peso le indicazioni principali sono: - Fare almeno 5 pasti al giorno e scegliere, soprattutto nelle merende, alimenti ipercalorici che siano però facilmente digeribili (ad esempio grana o parmigiano, olive, crema 100% arachidi, frutta a guscio). Inserire un carboidrato a basso indice glicemico in un pasto principale e nell’altro una buona fonte di proteine. La maggior parte delle calorie deve provenire da grassi ‘buoni’ semplici da digerire (insaturi quali: olio extravergine di oliva premitura a freddo, avocado, ecc.) e molte proteine che sono fondamentali per contrastare la perdita muscolare (un pasto al giorno deve essere proteina e la settimana può essere divisa in: carne due volte alla settimana sia banca che rossa (NO INSACCATI), il pesce due volte, le uova se le transaminasi lo permettono, formaggi delattosati). Sottolineo che la carne va benissimo sia bianca (preferibilmente tacchino o coniglio) sia rossa, l’importante è che non sia processata (gli insaccati e gli affettati devono essere evitati). Spesso i pazienti, allarmati da falsi miti, decidono di togliere totalmente la carne dalla loro tavola, ecco perché vorrei ricordare due cose importanti: la prima è che prevenzione e cura del tumore sono due STATI assolutamente differenti. La seconda è che il legume contiene solo il 20% di proteina (il resto è tutto carboidrato e grasso), quindi assolutamente insufficiente a sostituire quella animale, a meno che non lo si mangi sia pranzo che cena. Il carboidrato ricordo che non deve superare il 40% dell’introito calorico giornaliero. - In caso di nausea che impedisce la normale assunzione calorica si può utilizzare un estratto PURO di zenzero. Inoltre alcuni altri accorgimenti possono risultare molto utili. Al mattino è bene non alzarsi subito dal letto ma mangiare una galletta di riso integrale che asciuga il succo gastrico notturno che se entra in circolo attiva il senso di nausea. Può inoltre essere d’aiuto l’utilizzo dei braccialetti anti- nausea venduti in farmacia (quelli per i mezzi di trasporto). Se con queste indicazioni l’appetito e l’apporto calorico rientrano non servono altre indicazioni. - In caso di inappetenza lieve ma persistente: diminuire gli alimenti integrali le cui fibre insolubili aumentano il senso di sazietà, quindi preferire i cerali semi-integrali quali il kamut, farina tipo2 o cereali decorticati. Cercare di NON bere durante i pasti ma aspettare almeno 40min. Pasti con pochi alimenti per volta al fine di favorirne l’assimilazione. - Laddove l’inappetenza fosse importante, con perdita continua di peso, SARCOPENIA e CHACHESSIA importanti, è necessario affiancare al piano nutrizionale, integratori ipercalorici e iperproteici. Si noti che gli ultimi studi dimostrano che la migliore integrazione per combattere la cachessia e la sarcopenia e riprendere una buona massa muscolare non è un’integrazione di semplice proteine. I risultati migliori si ottengono da integrazione contemporanea di proteine del latte, aminoacidi e vitamina D. (integratori appositamente formulati per il paziente oncologico hanno queste caratteristiche ad esempio ONCOFORTE da richiedere nelle farmacie che si riforniscono dalla ditta Viprof). È noto inoltre che l’integrazione di vit. B1 stimola l’appetito e favorisce digestione e assimilazione. In casi più gravi si può chiedere il parere del medico ed intervenire con una nutrizione artificiale. - Se le problematiche sono invece meccaniche (disfagia), è essenziale intervenire tempestivamente con una nutrizione enterale, senza attendere una perdita di peso superiore al 20% (questa percentuale dipende dalle condizioni di partenza del paziente, potrebbe essere necessario intervenire anche molto prima di tale percentuale). 3- Arricchire la dieta con determinate vitamine massimizzando l'efficacia delle terapie senza entrare in conflitto con le terapie. Negli ultimi 10 anni, sono stati condotti numerosissimi studi (che hanno coinvolto migliaia di pazienti) con l’obiettivo di fare chiarezza su quali vitamine si possano assumere, in quali fasi della patologia e in quali dosi. Mentre i meccanismi di azione non sono stati del tutto chiariti, i benefici o meno dell’integrazione, sono ormai ben noti. È stato ad esempio dimostrato che la vitamina C ha un effetto positivo nei pazienti con diagnosi di carcinoma polmonare. Non solo se ne è dimostrata l’efficacia nel migliorare la qualità di vita durante le terapie (minore tossicità, migliore sistema immunitario, miglioramento dell’astenia), ma la sua supplementazione aumenta notevolmente la sensibilità delle cellule tumorali alla chemioterapia. Simili risultati si sono osservati anche con la vitamina D. Inoltre la supplementazione di quest’ultima ha mostrato anche un effetto positivo nella prevenzione primaria, diminuendo l’incidenza del tumore al polmone nei soggetti che la integrano. Al contrario delle vitamine sopra citate, numerosi quesiti sono ancora aperti sulle vitamine B6 e B12. La vitamina B12 (o Cobalamina) è essenziale in tutte le cellule per la proliferazione e la produzione di ATP (energia) per la loro stessa sopravvivenza. Poiché queste funzioni sono fortemente accentuate nei tumori, le cellule cancerogene sono molto avide di Cobalamina. Questo, insieme al fatto che alcuni tumori polmonari (tra cui l’adenocarcinoma), aumentano la quantità di recettore per questa vitamina (il recettore è la proteina che usa la B12 come traghetto per entrare nelle cellule) hanno fatto sì che la B12 fosse sotto inchiesta per molti anni. Ad oggi gli studi dimostrano che l’assunzione di questa vitamina correla con l’aumento nell’insorgenza di tumore al polmone, l’aumento della diffusine metastatica e il peggioramento della prognosi (soprattutto nell’adenocarcinoma e nelle terapie quali chemioterapia e immunoterapia). Dall’altro lato però la B12, grazie al suo ruolo nella sopravvivenza cellulare, sembra migliorare notevolmente la tossicità delle chemioterapie e la ripresa del sistema immunitario nei pazienti con diagnosi di non-small-cell lung cancer, rendendo possibili le terapie anche in pazienti fortemente debilitati o a rischio tossicità. Ad oggi se ne sconsiglia fortemente la supplementazione a meno che non sia l’oncologo a valutarne la necessità in caso di pazienti con sistema immunitario a rischio. Per quanto riguarda la vitamina B6, poiché non sono state osservate correlazioni con l’insorgenza della malattia, possono essere integrate nei soggetti sani. In caso però di diagnosi di malattia oncologica le osservazioni sono del tutto simili a quelle appena descritte per la vitamina B12. Anche in questo caso quindi, è preferibile NON integrarle a meno di importante necessità indicata dall’oncologo. 4- Migliorare l’asse intestino-polmone (Microbiota). Sono ormai centinaia le ricerche scientifiche che studiano il nostro microbiota, ovvero i coinquilini batteri che vivono nel e sul nostro corpo. Tantissime specie di batteri, virus e funghi vivono nell’intestino, ma anche sulla pelle o nella bocca. Ormai è chiaro che non sono ospiti e osservatori nella nostra salute, ma sono attori che partecipano attivamente nella nostra biologia di tutti i giorni e in molte malattie tra cui il cancro. Agiscono non solo sulla prevenzione, ma anche sulle cure e sugli effetti collaterali di queste ultime (10). Coloro che hanno una maggiore biodiversità del microbiota intestinale, dovuto a una sana alimentazione o ad una integrazione con cibi fermentati, presentano una diminuzione di infiammazioni rispetto al gruppo di controllo. Questa diminuzione correla direttamente con una più bassa incidenza di tumore e ad una migliore risposta alle terapie. Ad esempio i batteri che producono acido butirrico e pentoato aumentano l’efficacia di immunoterapie quali l’anti-PD1. Viste le numerosissime evidenze osservate anche nell’aiutare un paziente oncologico nel contrastare gli effetti collaterali delle terapie, ha preso sempre più piede il trapianto fecale. Questo permette, non solo di migliorare la varietà di flora batterica molto rapidamente, ma fa sì che questi microorganismi attecchiscano nel nostro intestino in modo permanente. Non per ultimo, alcuni ceppi inseriti a cavallo dei giorni della chemioterapia, prevengono stati di dissenteria o stipsi spesso legati ai farmaci oncologici. I batteri non sono tutti uguali, e piuttosto della quantità, un buon probiotico deve offrire più ceppi batterici in modo da essere completo. Tra i batteri maggiormente coinvolti nel migliorare il sistema immunitario e la ripresa dopo le terapie c’è il saccharomyces Boulardi. B. Longum e L. Casei sono invece maggiormente coinvolti nel riassorbimento alimentare e quindi favoriscono la ripresa da stato di astenia e malnutrizione. L. Casei, E. Fecium e S. Thermophilus sono cruciali per i problemi di dissenteria e stipsi. Uno dei ceppi batterici che sta riscuotendo particolari consensi negli ultimi anni è quello appartenente alla famiglia dei Firmicuti, produttori di acido butirrico. In Cina questo acido è abbinato da anni alle immunoterapie, in Italia è stato approvato da poco e l’ingresso sul mercato è recente (11). Tra gli integratori di probiotico che maggiormente suggerisco ci sono Butirriflora (che contiene sia i probiotici citati sia l’acido butirrico)(va richiesto alle farmacie se distribuiscono viprof, in quel caso possono procurarlo, oppure online) , Butirrisan (che integra solo acido butirrico e quindi andrebbe affiancato sempre ad un probiotico)(distribuito pharmaextracta, quindi nelle farmacie che la trattano). Spesso, in caso di stipsi o dissenteria dovuta alle terapie, suggerisco un’integrazione dal giorno prima dell’infusione, fino a 3-4 giorni dopo, o fino a regolarizzazione dell’alvo.
Autore: Angela De Laurentiis 13 ottobre 2024
Parliamo di terapie e alimentazione con ALCASE italia - Per la lotta al cancro del polmone. Ho avuto il piacere di essere invitata come esperta. Qui di seguito il link facebook per il video
9 luglio 2024
La salvia è stata associata in passato a diverse proprietà curative. Considerata una buona fonte di antiossidanti, contiene vitamine che si rivelano preziose alleate del funzionamento del metabolismo e minerali in grado di aiutare cuore, ossa, denti e cervello. Ma non solo, perché secondo il gruppo di ricerca di Università di Padova e Istituto Veneto di Medicina Molecolare guidato da Andrea Alimonti e Monica Montopoli, dalla salvia haenkei potrebbe arrivare una nuova possibile arma anti-invecchiamento in grado di attaccare le cellule senescenti. “Gli studi pre-clinici condotti dal nostro team di ricerca hanno dimostrato che una bassa dose di un estratto botanico di salvia haenkei (Haenkenium, Hk) può prolungare l’aspettativa di vita in modo più sano” ha spiegato Alimondi. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature Aging.
Show More